di Yan Allegret
Traduzione Scuola Itsuo Tsuda
Lo scrittore e regista teatrale Yan Allegret si interessa da vent’anni all’Aikido e alla cultura giapponese tradizionale. Ha praticato in diverse palestre e dojo in Francia e in Giappone, interessandosi alla nozione di dojo: ciò che fa sì che uno spazio divenga, a un certo momento, “il luogo dove si pratica la via”.
Alla scoperta di un dojo tradizionale a Milano: il dojo Scuola della Respirazione della Scuola Itsuo Tsuda.
Avviene intorno alle 6 del mattino. Delle persone escono di casa e si dirigono verso un luogo. A piedi. In macchina. In metropolitana. Fuori, le strade di Milano sono ancora assonnate, quasi deserte. L’alba è vicina. La seduta di Aikido inizia alle 6:45.
Il ritmo della città è ancora quello della notte. Quelli che sono usciti non hanno ancora indossato le corazze necessarie alla giornata di lavoro che si annuncia. Qualcosa rimane in sospeso. Con la nascita del giorno si ha l’impressione di camminare in un interstizio.
È in quest’interstizio che troviamo il dojo Scuola della Respirazione della Scuola Itsuo Tsuda.
In questo luogo dedicato all’Aikido e al Katsugen Undo, le sedute sono quotidiane. Tutte le mattine, la seduta ha luogo, con qualsiasi tempo, i weekend o le vacanze, tranne il primo gennaio, giorno della cerimonia di purificazione del dojo. L’alba influenza la pratica. Questa porosità è stata da sempre presa in considerazione nella tradizione giapponese. Basta rileggere il Fushi Kaden1 di Zeami, creatore del teatro Nō, per comprendere fino a che punto le arti tradizionali sono state alla ricerca del “momento giusto” (che tiene conto dell’ora, del tempo, della temperatura, della qualità del silenzio, ecc…) per rendere perfetta la loro arte.
Camminando verso il dojo alle 6:30, ce ne rendiamo conto. Praticare la mattina dà spessore. Lo spirito non è ancora assalito dalle preoccupazioni della vita sociale, familiare. Il mentale non ha ancora preso i comandi. Si arriva come un foglio bianco al numero 30 di via Fioravanti.
L’Associazione Scuola della Respirazione esiste dal 1983 e si è stabilita qui dal 1993. È stata fondata da un gruppo di persone desiderose di seguire l’insegnamento di Itsuo Tsuda, trasmesso da Régis Soavi. Itsuo Tsuda fu allievo di Morihei Ueshiba e di Haruchika Noguchi (fondatori dell’Aikido e del Katsugen Undo). Quanto a lui, l’attuale sensei, Régis Soavi, è stato allievo diretto del Maestro Tsuda.
Il dojo non è affiliato a nessuna federazione. Segue il suo percorso associativo, indipendente e autonomo, con continuità e pazienza.
Quando si attraversa la soglia, si sente che si è entrati “da qualche parte”. Una forma di densità e al tempo stesso di semplicità emana dal posto. In giapponese si direbbe che il “ki” del luogo è palpabile.
Lo spazio è silenzioso. Le persone sono riunite intorno ad un caffè, in un vasto ambiente con grandi finestre. Accanto, lo spazio dei tatami sonnecchia ancora. Le persone arrivano, tra le 6:20 e le 6:45: uomini e donne di tutte le età, di ogni dove e di tutti i livelli.
Il Sensei, Régis Soavi, a volte, è anche lui là, a prendere il caffè con gli altri. Di norma pratica e insegna al dojo Tenshin di Parigi, dal quale si assenta per andare a condurre degli stage negli altri dojo della Scuola.
Tra questi vi è quello di Milano, dove in alcuni periodi dell’anno si ferma un po’ più a lungo, una settimana o dieci giorni, prima o dopo lo stage. Altrimenti, le sedute sono assicurate dagli altri praticanti. La costanza della pratica è protetta.
Il dojo è vasto. Lo spazio dei tatami è ricoperto da un grande telo beige. Tutti i muri sono bianchi. Su quello centrale vi è una calligrafia del Maestro Tsuda montata in kakejiku. I ritratti dei fondatori (Ueshiba per l’Aikido, Noguchi per il Katsugen Undo e Tsuda per il dojo) sono situati sulle altre pareti. Sono le 6:45 circa. I praticanti si dirigono verso gli spogliatoi. La seduta sta per cominciare. I tatami sono stati lasciati a riposo dal giorno prima. Al di fuori delle sedute, il posto non viene affittato, fatto fruttare, utilizzato da altri corsi. Si comincia allora a capire da dove venga questo “qualche cosa” che si è sentito entrando. Un vuoto è al lavoro. Altro elemento capitale nella tradizione giapponese: l’importanza di un vuoto che unisce.
Tra le sedute, si lascia lo spazio ricaricarsi, riposarsi, come un corpo umano. Bisogna aver visto il posto nudo e silenzioso, come un animale a riposo, per comprendere la realtà di questo fatto. I praticanti si siedono in seiza, il silenzio si fa e la seduta comincia.
Chi conduce si pone di fronte alla calligrafia, bokken in mano, poi si siede. Si saluta una prima volta. Poi viene la recitazione del norito, un’invocazione shintoista, di chi conduce la seduta. Il Maestro Ueshiba cominciava così ogni seduta. Il Maestro Tsuda, abituato alla mentalità occidentale, non aveva giudicato necessario tradurre questa invocazione. Aveva insistito solamente sulla vibrazione che ne emana, il lavoro della respirazione. Certo, la dimensione sacra è presente. Ma non per questo è religiosità, né mistica “giapponesizzante” di cui gli occidentali sono spesso ghiotti. No. Qui, è molto più semplice. Ascoltando il norito, si sente risuonare qualcosa nello spazio che favorisce la concentrazione, il ritorno dentro di sé. Come si può essere toccati da un canto senza aver bisogno di capire le parole.
Segue la “pratica respiratoria”, una serie di movimenti che facciamo da soli. Il Maestro Tsuda ha mantenuto questa parte del lavoro che faceva il Maestro Ueshiba e che ha potuto essere abusivamente considerata come un riscaldamento. Il termine riscaldamento è restrittivo. Impegna solo il corpo e suppone che la pratica, la vera, comincerà dopo. In entrambi i casi, è falso. Un solo movimento può essere approfondito all’infinito e implica, se si lavora in questo senso, la totalità del nostro essere.
Viene poi il lavoro a due. Si sceglie un partner. Nessuna forma di gerarchia predomina. Si potrà un giorno praticare con un principiante, il giorno dopo con una cintura nera. Si lavorano quattro o cinque tecniche di Aikido per seduta. Chi conduce fa la dimostrazione di una tecnica, poi ognuno si esercita a turno con il proprio partner. Quello che emerge dalla pratica è l’importanza della respirazione e l’attenzione a ciò che circola tra sé e il partner. Una circolazione che, prendendo il postulato del combattimento come punto di partenza, porta al di là. Un al di là dal combattimento.
Non è certamente per caso che Régis Soavi Sensei utilizza il termine “fusione di sensibilità” per parlare dell’Aikido. “La via della fusione del ki”. Sui tatami, nessun confronto brutale. Ma nemmeno condiscendenza molle. L’Aikido praticato qui è morbido, chiaro, fluido. Si vedono le hakama descrivere degli arabeschi in aria, si sentono risate, rumori di cadute, si vedono movimenti molto lenti poi, improvvisamente, senza una parola, i partner accelerano e sembrano trascinati in una danza, finché la caduta li libera.
Si ripensa alla frase di Morihei Ueshiba: «L’Aikido è l’arte di unirsi e di separarsi».
Non c’è passaggio di gradi. Né esame. Né dan né kyu. Al loro posto, il portare l’hakama e la cintura nera. I principianti, quanto a loro, sono in kimono bianco e cintura bianca. Il momento giusto per portare l’hakama è deciso dallo stesso praticante, dopo averne parlato con degli anziani o il Sensei. Scegliere di portare l’hakama implica di assumere una libertà, ma anche una responsabilità. Perché si sa che i principianti prenderanno più facilmente come modello coloro che portano la gonna nera tradizionale. La questione del grado è rigirata come un guanto. La chiave non è all’esterno. È la propria sensazione che si deve “affilare”, per riconoscere il momento giusto. Certo, ci si può sbagliare, si mette l’hakama troppo presto, o troppo tardi. Ma il lavoro è avviato. È in se stessi che si deve cercare. Quanto alla cintura nera, il Sensei un giorno la consegna al praticante che stima adatto a portarla, quest’ultimo non è peraltro mai al corrente di questa decisione. Ed è tutto. La persona porterà la cintura nera. Niente blabla. Il simbolo è preso per quello che è: un simbolo e niente di più. Il cammino non ha fine.
Vedendo la dimostrazione del movimento libero, nel quale le tecniche si concatenano spontaneamente, si ripensa al termine che torna spesso nelle opere e nell’insegnamento di Itsuo Tsuda: “Il non fare”. Ed è probabilmente ciò che dà quest’atmosfera così particolare al dojo, con l’alba, l’odore dei fiori davanti al kakemono e il vuoto. Una via del non-fare. La seduta si conclude. Il silenzio ritorna. Si saluta la calligrafia, chi conduce esce. Poi i praticanti lasciano lo spazio o piegano le loro hakama sui tatami. Più tardi, dopo essersi cambiati, ci si ritrova intorno ad una colazione, verso le 8:30, nell’ ambiente accanto ai tatami.
Si cerca di saperne di più del funzionamento del dojo. Perché questo posto viva, perché sia allo stesso tempo vivente e autonomo finanziariamente, un’energia considerevole viene messa dai praticanti. Alcuni hanno fatto la scelta di dedicarvi una grande parte della loro vita. Sono un po’ come degli uchideshi giapponesi, degli allievi interni. Oltre alla pratica, gestiscono la colonna vertebrale del dojo, alternandosi poi con altri praticanti che si potrebbero associare a degli allievi esterni. Tutti partecipano, sono incoraggiati a prendere delle iniziative e a responsabilizzarsi.
Un anziano riassume l’insegnamento ricevuto: «L’Aikido. Il Katsugen Undo. E il dojo.» La vita di un dojo è qui un lavoro vero e proprio, un’occasione unica di mettere in pratica al di fuori dei tatami quello che si impara sui tatami. Piuttosto che un rifugio, una serra, l’immagine sarebbe quella di un terreno a cielo aperto in mezzo alla città, nel quale ci si mette a maggese all’alba, dove si dissodano le proprie erbacce per lasciare spazio, poco a poco, ad altre fioriture. Si guarda lo spazio vuoto dei tatami un’ultima volta prima di andarsene. Sembra respirare. Il giorno è spuntato e la città ora è in un ritmo rapido e rumoroso. Ci aspetta. Lasciamo il dojo e camminiamo fuori, con un leggerissimo sorriso.
In un mondo di accumulazione e di riempimento sfrenato, esistono dei posti in cui si può lavorare attraverso il meno. Questo ne è uno.
(Un estratto di quest’articolo è stato pubblicato sulla rivista Karaté Bushido, ed. francese, febbraio 2014)
1. Zeami, La tradition secrète du Nô (La tradizione segreta del Nō). Traduzione René Sieffert, Gallimard/Unesco.
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