Alla Scuola della Respirazione si pratica l’Aikido come è stato proposto in Europa da Itsuo Tsuda Sensei e trasmesso oggi da Régis Soavi Sensei. Itsuo Tsuda Sensei, allievo di Ō Sensei Morihei Ueshiba negli ultimi dieci anni di vita di quest’ultimo, non era interessato all’Aikido come sport, arte di combattimento o arte marziale, ma piuttosto alla possibilità di condurre attraverso quest’arte una ricerca interiore e personale.
Coerentemente con questa ricerca, si può tradurre Ai-ki-do con “Via (do) della fusione (ai) del ki”, in quanto permette di sentire il ki1 in modo più fine man mano che lo si pratica. Si può affinare la propria sensibilità al ki della persona con cui pratichiamo, e anche al ki del luogo dove ci troviamo. La possibilità di fondere, sui tatami, la nostra sensibilità con l’altro e con quello che ci circonda, con il tempo si estende anche alla vita quotidiana così da essere sempre di più in armonia con gli altri, con la natura, e con la nostra natura più profonda.
A tal proposito, vi consigliamo la lettura di questi articoli di Règis Soavi Sensei:
Il ki, una dimensione a pieno titolo “Niente potrebbe essere fatto senza il ki: è per questo che è al centro della nostra pratica. Noi mettiamo la nostra sensibilità in questa direzione e così si può vedere il mondo e le persone non solo a livello dell’apparenza ma molto oltre, nella loro profondità.”
1. Non esiste una parola nelle lingue occidentali per tradurre il termine giapponese ki, a volte viene tradotto con “energia vitale”, “respirazione”, “soffio vitale”, ecc.
Al dojo Scuola della Respirazione si pratica il Katsugen undo, che è stato tradotto da Itsuo Tsuda Senseicon Movimento rigeneratore.1 È una pratica molto semplice ma difficile da spiegare a parole, di solito si dice “è una ginnastica, un allenamento del sistema motorio extrapiramidale (sistema involontario)”. Ma questa formula in realtà non spiega molto per la maggior parte delle persone che la sentono per la prima volta. Allora cosa si fa durante una seduta di Katsugen undo? Praticamente niente! In questo senso si può dire che è una pratica del Non-Fare. Perché il sistema volontario sospende per qualche minuto il controllo che di solito esercita sul corpo, passando momentaneamente la mano al sistema involontario che fa scattare un movimento di cui il corpo stesso ha bisogno per riequilibrarsi. Ogni individuo ha il proprio equilibrio che cambia ad ogni istante. Anche perché viene di continuo messo in disequilibrio dagli stimoli dell’ambiente che lo circonda. Da questo nasce il bisogno di trovare un nuovo equilibrio, senza soluzione di continuità. Quando camminiamo, per esempio, siamo sempre per frazioni di secondo in disequilibrio. Per ritrovare l’equilibrio, senza che ce ne accorgiamo, senza alcun nostro atto conscio, un piede si sposta in avanti grazie al sistema involontario che reagisce, dato che solo lui ha tale capacità. Tutti gli esseri umani hanno fin dal proprio concepimento la capacità di riequilibrarsi, è una capacità innata che, se la si vuole mantenere o ritrovare, deve essere preservata o riattivata.
Itsuo Tsuda durante una conferenza di Katsugen undo
“Facciamo un esempio in modo da rendere la cosa concreta: molte persone hanno tendenza ad appoggiarsi più su un gamba che sull’altra. […] sarà sempre la stessa gamba che serve da punto d’appoggio ed è per questo motivo che supporta permanentemente la maggior parte del peso, quindi si affatica e tende a usurarsi maggiormente e a diventare rigida. L’insieme dell’organismo soffre di questa dissimmetria e, in particolare, ovviamente in primo luogo la colonna vertebrale. Per mezzo di un rigonfiamento dovuto a un apporto di liquido o grazie a un dolore, e spesso anche tramite entrambe le reazioni, l’organismo cerca di alleviare il ginocchio che porta il tributo più pesante, impedendoci di utilizzarlo fino alla guarigione, cioè fino a che non si ristabilisce l’equilibrio del corpo nel suo insieme. Se si impedisce questo sviluppo forzando lo sgonfiamento e sopprimendo il dolore, il corpo diventato insensibile continuerà ad appoggiarsi sullo stesso lato e la situazione peggiorerà. Il corpo cercherà di ritrovare l’equilibrio in tutti i modi, all’inizio rinnovando i problemi alle ginocchia appena ritrova la sensibilità in questo punto, poi poco a poco sono le anche che iniziano a compensare la mancanza di flessibilità e alla fine la schiena, cioè la colonna vertebrale, con tutte le conseguenze che si possono immaginare.”2
Il Katsugen undo permette al corpo di riequilibrarsi in modo naturale, con il ritmo proprio ad ogni individuo, se si risvegliano a poco a poco con la pratica le capacità proprie del sistema involontario, “attraverso un riapprendimento corporale, un riequilibrio lento ma profondo. Se invece non si accetta il lavoro del proprio corpo, bisognerà allora accettare la desensibilizzazione progressiva, l’irrigidimento progressivo e le sue conseguenze: una certa forma di Robotizzazione o l’indebolimento e l’incapacità di reagire.”3
Il Katsugen Undo come base del Seitai Il Katsugen undo, pratica messa a punto da Haruchika Noguchi Sensei, può essere considerato come la base del Seitai, la filosofia dello stesso H. Noguchi. Si tratta di una filosofia molto diversa da quella occidentale, di norma basata su antinomie e dualismi. È una filosofia pratica con una visione globale sull’individuo, sulla vita, sulla salute, sulla gravidanza, sull’educazione, ecc. Per H. Noguchi l’individuo è un’unità indivisibile, non un insieme di elementi di cui si occupano separatamente degli specialisti, esperti del fegato, del midollo spinale, del subconscio, e così via. “L’educazione ci ha formati a concepire il tutto come un assemblaggio delle parti. Così l’uomo ha una testa, due mani e due piedi. Quando pensiamo alla mano, è tramite l’idea generale di mano che ci riusciamo, come se questa mano di questa persona fosse solo un esemplare della mano in generale.”4 La filosofia di H. Noguchi non è contro la scienza, ma è diversa dalla scienza dominante che è scienza del generale perché propende per una “scienza del particolare”,5 una conoscenza di ogni singolo individuo, di ogni singola espressione della vita.
Haruchika Noguchi Sensei, fondatore del Seitai
A volte la complessità della visione seitai subisce una forma di riduzionismo: viene descritta soltanto come un metodo di salute. Se fosse così, si tratterebbe di un’ennesima terapia alternativa, più o meno dolce, più o meno in opposizione alla medicina convenzionale, più o meno simile ai tanti metodi, nuovi o antichi e riscoperti, che sono disponibili nella nostra società. Se si vuole, si può dire che il Seitai ha una concezione della salute diversa da quella più diffusa che vede la salute come assenza della malattia. Il Seitai, e la pratica del Katsugen undo, permettono alle persone di scoprire una diversa qualità della salute in cui la malattia è semplicemente una parte del lavoro che il corpo compie di continuo per ritrovare il proprio equilibrio.
Se il Seitai non può essere ridotto a un metodo di salute, non si può neanche ridurre, per esempio, a un metodo per il parto naturale o a un metodo educativo. I testi di H. Noguchi e I. Tsuda (colui che per primo ha scritto del Seitai in lingua occidentale) non sono manuali da applicare nel corso della gravidanza o dell’allattamento e non contengono regole per crescere i propri figli. Per esempio H. Noguchi dice che educare a fare quello che ha valore secondo il genitore, che gli fa piacere, e reprimere quello che non gradisce, viene considerato educare un bambino. Ma con quest’idea di educazione, gli si nuoce. La forma di educazione di cui parla H. Noguchi è quella che fa sviluppare al meglio l’autonomia del kokoro6 umano. È così possibile, per i genitori e per chi si occupa di bambini, un atteggiamento di ascolto e di attenzione verso i loro bisogni e un’educazione che non riempia il loro cervello dei valori degli adulti e di idee preconcette. In modo da permettere che i ragazzi si facciano, tramite una capacità di riflessione autonoma, un proprio giudizio personale sulla realtà che li circonda. Senza aderire a un’ideologia o a una contro-ideologia, senza schierarsi come dei tifosi di calcio pro o contro questa o quella forma di progresso tecnico-scientifico, sia l’alta velocità o la procreazione assistita.
Seitai e Katsugen undo: intervista a Régis Soavi Sensei
Tutti possono praticare il Katsugen undo indipendentemente dalle proprie opinioni in ambito politico, religioso, scientifico, ecc., proprio perché al dojo Scuola della Respirazione si è liberi. Anche quando alcune libertà “esteriori”, come la libertà di movimento, vengono limitate, questa pratica dà alle persone la possibilità di ritrovare la propria libertà interiore, non condizionata da circostanze esterne. E, allo stesso modo, la possibilità di pensare in modo autonomo, proprio perché nell’insegnamento di H. Noguchi e I. Tsuda, così come viene trasmesso oggi da Régis Soavi Sensei, vi è l’indicazione di un cammino che conduce verso l’autonomia dell’individuo. Questo cammino implica anche una sempre maggiore responsabilità rispetto ai propri atti e le proprie decisioni. Che riguardino la propria vita professionale, l’educazione dei propri figli o la propria salute, senza delegare a autorità superiori, siano esse dio, capoufficio, governo, padre, marito, medico.
1 Itsuo Tsuda, scrittore, filosofo e maestro di Aikido venne negli anni ‘70 in Europa, stabilendosi a Parigi, per far conoscere il Katsugen undo. 2 Régis Soavi, “Vivre Seitai” in Yashima, marzo 2020. 3 Ibidem. 4 Itsuo Tsuda, Un, Le Courrier du Livre, 2014, p. 84. 5 Dal titolo del terzo libro di Itsuo Tsuda La scienza del particolare, Yume Editions, 2019. 6 Con kokoro, si intende l’insieme di facoltà di raziocinio, sensibilità e volontà dell’essere umano, non come opposte al suo aspetto corporeo, ma come ciò che lo anima.
Lo scrittore e regista teatrale Yan Allegret si interessa da vent’anni all’Aikido e alla cultura giapponese tradizionale. Ha praticato in diverse palestre e dojo in Francia e in Giappone, interessandosi alla nozione di dojo: ciò che fa sì che uno spazio divenga, a un certo momento, “il luogo dove si pratica la via”.
Alla scoperta di un dojo tradizionale a Milano: il dojo Scuola della Respirazione della Scuola Itsuo Tsuda.
Avviene intorno alle 6 del mattino. Delle persone escono di casa e si dirigono verso un luogo. A piedi. In macchina. In metropolitana. Fuori, le strade di Milano sono ancora assonnate, quasi deserte. L’alba è vicina. La seduta di Aikido inizia alle 6:45. Il ritmo della città è ancora quello della notte. Quelli che sono usciti non hanno ancora indossato le corazze necessarie alla giornata di lavoro che si annuncia. Qualcosa rimane in sospeso. Con la nascita del giorno si ha l’impressione di camminare in un interstizio. È in quest’interstizio che troviamo il dojo Scuola della Respirazione della Scuola Itsuo Tsuda.
L’arrivo all’alba nei dojo della Scuola Itsuo Tsuda
In questo luogo dedicato all’Aikido e al Katsugen Undo, le sedute sono quotidiane. Tutte le mattine, la seduta ha luogo, con qualsiasi tempo, i weekend o le vacanze, tranne il primo gennaio, giorno della cerimonia di purificazione del dojo. L’alba influenza la pratica. Questa porosità è stata da sempre presa in considerazione nella tradizione giapponese. Basta rileggere il Fushi Kaden1 di Zeami, creatore del teatro Nō, per comprendere fino a che punto le arti tradizionali sono state alla ricerca del “momento giusto” (che tiene conto dell’ora, del tempo, della temperatura, della qualità del silenzio, ecc…) per rendere perfetta la loro arte.
Camminando verso il dojo alle 6:30, ce ne rendiamo conto. Praticare la mattina dà spessore. Lo spirito non è ancora assalito dalle preoccupazioni della vita sociale, familiare. Il mentale non ha ancora preso i comandi. Si arriva come un foglio bianco al numero 30 di via Fioravanti.
Dojo Scuola della Respirazione
L’Associazione Scuola della Respirazione esiste dal 1983 e si è stabilita qui dal 1993. È stata fondata da un gruppo di persone desiderose di seguire l’insegnamento di Itsuo Tsuda, trasmesso da Régis Soavi. Itsuo Tsuda fu allievo di Morihei Ueshiba e di Haruchika Noguchi (fondatori dell’Aikido e del Katsugen Undo). Quanto a lui, l’attuale sensei, Régis Soavi, è stato allievo diretto del Maestro Tsuda. Il dojo non è affiliato a nessuna federazione. Segue il suo percorso associativo, indipendente e autonomo, con continuità e pazienza. Quando si attraversa la soglia, si sente che si è entrati “da qualche parte”. Una forma di densità e al tempo stesso di semplicità emana dal posto. In giapponese si direbbe che il “ki” del luogo è palpabile. Lo spazio è silenzioso. Le persone sono riunite intorno ad un caffè, in un vasto ambiente con grandi finestre. Accanto, lo spazio dei tatami sonnecchia ancora. Le persone arrivano, tra le 6:20 e le 6:45: uomini e donne di tutte le età, di ogni dove e di tutti i livelli.
Il Sensei, Régis Soavi, a volte, è anche lui là, a prendere il caffè con gli altri. Di norma pratica e insegna al dojo Tenshin di Parigi, dal quale si assenta per andare a condurre degli stage negli altri dojo della Scuola. Tra questi vi è quello di Milano, dove in alcuni periodi dell’anno si ferma un po’ più a lungo, una settimana o dieci giorni, prima o dopo lo stage. Altrimenti, le sedute sono assicurate dagli altri praticanti. La costanza della pratica è protetta.
Calligrafia “Cento fiori” di Itsuo Tsuda, montata in kakejiku, realizzato da Sara Rossetti
Il dojo è vasto. Lo spazio dei tatami è ricoperto da un grande telo beige. Tutti i muri sono bianchi. Su quello centrale vi è una calligrafia del Maestro Tsuda montata in kakejiku. I ritratti dei fondatori (Ueshiba per l’Aikido, Noguchi per il Katsugen Undo e Tsuda per il dojo) sono situati sulle altre pareti. Sono le 6:45 circa. I praticanti si dirigono verso gli spogliatoi. La seduta sta per cominciare. I tatami sono stati lasciati a riposo dal giorno prima. Al di fuori delle sedute, il posto non viene affittato, fatto fruttare, utilizzato da altri corsi. Si comincia allora a capire da dove venga questo “qualche cosa” che si è sentito entrando. Un vuoto è al lavoro. Altro elemento capitale nella tradizione giapponese: l’importanza di un vuoto che unisce.
Tra le sedute, si lascia lo spazio ricaricarsi, riposarsi, come un corpo umano. Bisogna aver visto il posto nudo e silenzioso, come un animale a riposo, per comprendere la realtà di questo fatto. I praticanti si siedono in seiza, il silenzio si fa e la seduta comincia.
Sedute di Aikido e Movimento rigeneratore
Chi conduce si pone di fronte alla calligrafia, bokken in mano, poi si siede. Si saluta una prima volta. Poi viene la recitazione del norito, un’invocazione shintoista, di chi conduce la seduta. Il Maestro Ueshiba cominciava così ogni seduta. Il Maestro Tsuda, abituato alla mentalità occidentale, non aveva giudicato necessario tradurre questa invocazione. Aveva insistito solamente sulla vibrazione che ne emana, il lavoro della respirazione. Certo, la dimensione sacra è presente. Ma non per questo è religiosità, né mistica “giapponesizzante” di cui gli occidentali sono spesso ghiotti. No. Qui, è molto più semplice. Ascoltando il norito, si sente risuonare qualcosa nello spazio che favorisce la concentrazione, il ritorno dentro di sé. Come si può essere toccati da un canto senza aver bisogno di capire le parole.
Prima parte individuale: pratica respiratoria
Segue la “pratica respiratoria”, una serie di movimenti che facciamo da soli. Il Maestro Tsuda ha mantenuto questa parte del lavoro che faceva il Maestro Ueshiba e che ha potuto essere abusivamente considerata come un riscaldamento. Il termine riscaldamento è restrittivo. Impegna solo il corpo e suppone che la pratica, la vera, comincerà dopo. In entrambi i casi, è falso. Un solo movimento può essere approfondito all’infinito e implica, se si lavora in questo senso, la totalità del nostro essere. Viene poi il lavoro a due. Si sceglie un partner. Nessuna forma di gerarchia predomina. Si potrà un giorno praticare con un principiante, il giorno dopo con una cintura nera. Si lavorano quattro o cinque tecniche di Aikido per seduta. Chi conduce fa la dimostrazione di una tecnica, poi ognuno si esercita a turno con il proprio partner. Quello che emerge dalla pratica è l’importanza della respirazione e l’attenzione a ciò che circola tra sé e il partner. Una circolazione che, prendendo il postulato del combattimento come punto di partenza, porta al di là. Un al di là dal combattimento.
Non è certamente per caso che Régis Soavi Sensei utilizza il termine “fusione di sensibilità” per parlare dell’Aikido. “La via della fusione del ki”. Sui tatami, nessun confronto brutale. Ma nemmeno condiscendenza molle. L’Aikido praticato qui è morbido, chiaro, fluido. Si vedono le hakama descrivere degli arabeschi in aria, si sentono risate, rumori di cadute, si vedono movimenti molto lenti poi, improvvisamente, senza una parola, i partner accelerano e sembrano trascinati in una danza, finché la caduta li libera. Si ripensa alla frase di Morihei Ueshiba: «L’Aikido è l’arte di unirsi e di separarsi». Non c’è passaggio di gradi. Né esame. Né dan né kyu. Al loro posto, il portare l’hakama e la cintura nera. I principianti, quanto a loro, sono in kimono bianco e cintura bianca. Il momento giusto per portare l’hakama è deciso dallo stesso praticante, dopo averne parlato con degli anziani o il Sensei. Scegliere di portare l’hakama implica di assumere una libertà, ma anche una responsabilità. Perché si sa che i principianti prenderanno più facilmente come modello coloro che portano la gonna nera tradizionale. La questione del grado è rigirata come un guanto. La chiave non è all’esterno. È la propria sensazione che si deve “affilare”, per riconoscere il momento giusto. Certo, ci si può sbagliare, si mette l’hakama troppo presto, o troppo tardi. Ma il lavoro è avviato. È in se stessi che si deve cercare. Quanto alla cintura nera, il Sensei un giorno la consegna al praticante che stima adatto a portarla, quest’ultimo non è peraltro mai al corrente di questa decisione. Ed è tutto. La persona porterà la cintura nera. Niente blabla. Il simbolo è preso per quello che è: un simbolo e niente di più. Il cammino non ha fine.
Vedendo la dimostrazione del movimento libero, nel quale le tecniche si concatenano spontaneamente, si ripensa al termine che torna spesso nelle opere e nell’insegnamento di Itsuo Tsuda: “Il non fare”. Ed è probabilmente ciò che dà quest’atmosfera così particolare al dojo, con l’alba, l’odore dei fiori davanti al kakemono e il vuoto. Una via del non-fare. La seduta si conclude. Il silenzio ritorna. Si saluta la calligrafia, chi conduce esce. Poi i praticanti lasciano lo spazio o piegano le loro hakama sui tatami. Più tardi, dopo essersi cambiati, ci si ritrova intorno ad una colazione, verso le 8:30, nell’ ambiente accanto ai tatami. Si cerca di saperne di più del funzionamento del dojo. Perché questo posto viva, perché sia allo stesso tempo vivente e autonomo finanziariamente, un’energia considerevole viene messa dai praticanti. Alcuni hanno fatto la scelta di dedicarvi una grande parte della loro vita. Sono un po’ come degli uchideshi giapponesi, degli allievi interni. Oltre alla pratica, gestiscono la colonna vertebrale del dojo, alternandosi poi con altri praticanti che si potrebbero associare a degli allievi esterni. Tutti partecipano, sono incoraggiati a prendere delle iniziative e a responsabilizzarsi.
Un anziano riassume l’insegnamento ricevuto: «L’Aikido. Il Katsugen Undo. E il dojo.» La vita di un dojo è qui un lavoro vero e proprio, un’occasione unica di mettere in pratica al di fuori dei tatami quello che si impara sui tatami. Piuttosto che un rifugio, una serra, l’immagine sarebbe quella di un terreno a cielo aperto in mezzo alla città, nel quale ci si mette a maggese all’alba, dove si dissodano le proprie erbacce per lasciare spazio, poco a poco, ad altre fioriture. Si guarda lo spazio vuoto dei tatami un’ultima volta prima di andarsene. Sembra respirare. Il giorno è spuntato e la città ora è in un ritmo rapido e rumoroso. Ci aspetta. Lasciamo il dojo e camminiamo fuori, con un leggerissimo sorriso. In un mondo di accumulazione e di riempimento sfrenato, esistono dei posti in cui si può lavorare attraverso il meno. Questo ne è uno.
(Un estratto di quest’articolo è stato pubblicato sulla rivista Karaté Bushido, ed. francese, febbraio 2014)
1. Zeami, La tradition secrète du Nô (La tradizione segreta del Nō). Traduzione René Sieffert, Gallimard/Unesco.
In questo articolo, a partire da un tema tratto dall’I-Ching (esagramma Tsing = Il pozzo), Régis Soavi Sensei ci parla delle pratiche dell’Aikido e del Movimento Rigeneratore come strumenti di ricerca e approfondimento di sé.
Il dojo è, per essenza, il pozzo dove vengono a nutrirsi i praticanti di arti marziali alla ricerca della Via, del Tao. All’opposto del ring o della palestra, offre un luogo di pace necessario, se non addirittura indispensabile, per l’approfondimento dei valori umani.
Oggi viviamo alla velocità della luce. La comunicazione non è mai stata così rapida. Le onde cariche di bit e micro-bit circolano di continuo intorno al nostro pianeta, portatrici di molte più informazioni di quante il nostro cervello possa immagazzinarne. I social hanno rimpiazzato la conoscenza con uno smalto di superficie che può sembrare abbastanza adatto a soddisfare il nostro aspetto sociale. Se negli anni sessanta i membri dell’Internazionale situazionista fustigavano gli pseudo-intellettuali che si nutrivano di riviste come Le Nouvel Observateur o L’Express1 per alimentare le loro conversazioni mondane o i loro scritti, cosa direbbero della democratizzazione proposta ad ognuno per diventare il nuovo Monsieur Jourdain del Borghese Gentiluomo di Molière? È meglio conoscere un po’ di tutto piuttosto che approfondire qualcosa, questo sembra essere il motto della nostra epoca. Nelle arti marziali la tendenza sembra andare nella stessa direzione. Molte persone sono interessate alle immagini spettacolari ritrasmesse dai media dove si presentano le capacità fittizie di attori marziali, peraltro molto bravi nel loro mestiere, ma dove la ricerca è principalmente la resa superficiale oltre che commerciale. L’immagine del pozzo nell’antica Cina dovrebbe farci riflettere sulle tendenze che governano la nostra vita di tutti i giorni. Quando si attingeva l’acqua dal pozzo con l’aiuto di un secchio e di un palo, era proprio la ripetizione di un tale atto che permetteva la vita del villaggio, ed il beneficio fornito era considerato come inesauribile. E se prendessimo esempio da questa antica immagine? Quando si pratica un’Arte come l’Aikido non si tratta di accumulare un numero sempre maggiore di tecniche, né di ripetere beatamente l’insegnamento prodigato, ma piuttosto di iniziare una ricerca, di riorientarsi verso qualcosa di più profondo così da abbandonare il superficiale, il superfluo, che ci ha tanto deluso e che non sopportiamo più.
Praticare l’Aikido significa riorientarsi verso qualcosa di più profondo così da abbandonare il superficiale.
Molti di coloro che all’inizio sono estremamente entusiasti di iniziare un vero lavoro con il loro corpo, si stancano della ripetizione, troppo spesso scolastica, oppure si lasciano fuorviare dall’ultima moda. Si vedono così persone che collezionano i metodi e passano da un’arte all’altra, dallo Yoga al Tai-chi, dal Karate alla Capoeira, pensando a volte che una di esse sia superiore all’altra come spiega molto bene uno youtuber alla moda che fa attualità a suo piacimento. Di fronte a tutti questi personaggi che vivono solo per influenzare i loro followers e si guadagnano da viverealle loro spalle grazie al numero di «like» e alla pubblicità che generano, non sarebbe il momento di cercare in fondo a se stessi? Di prendersi il tempo di riflettere piuttosto che consumare passivamente la riflessione di un altro? Di muovere il proprio corpo per ritrovare un’armonia perduta piuttosto che cercare nel virtuale un complemento alla routine derivante dalla povertà del quotidiano? Il dojo in quanto luogo di ricerca possiede tutte le caratteristiche del pozzo: è al contempo un luogo di allenamento, poiché vi si attinge ogni giorno, e allo stesso tempo (e forse più) è un luogo di convivialità dove il sociale si sbarazza diciò che gli impedisce di essere vero, vale a diredi essere il più vicino possibile alla natura profonda degli individui. Un luogo dove la sociabilitàsfugge alle convenzioni, un luogo dove si può comunicare, entrare fisicamente in contatto con l’altro in modo semplice, con tutte le difficoltà che ciò può comportare per colui o colei che non è pronto o pronta. Tutta la difficoltà risiede nel fatto di non rimanere in superficie nella pratica, di non accontentarsi di surfare su un oceano di immagini diventate virtuali o sguazzare sulla riva e questo se possibile senza bagnarsi troppo, ma di impregnarsi di quello che vi si trova, di lasciare ciò che ci ingombra in modo da esplorarne le profondità. Il mio Maestro Itsuo Tsuda nel suo libroIl Non-fare2 ci dà con semplicità, un’idea della sua ricerca e del lavoro che ha intrapreso in Europa.
Itsuo Tsuda.
«Cosa sono io in confronto alla grandezza dell’Amore cosmico del Maestro Ueshiba, della tecnica del Non-Fare del Maestro Noguchi, o della raffinatezza insondabile del Maestro Kanze Kasetsu, attore del teatro Nō? Li ho conosciuti tutti e tre; due sono morti, solo il Maestro Noguchi è in vita [Haruchika Noguchi muore nel 1976]. La loro influenza continua a lavorare in me. Essi sono maestri per natura. Io sono solo un essere che comincia a risvegliarsi, che cerca ed evolve. Una straordinaria continuità di sforzi costanti caratterizza le opere di questi maestri. Ho l’impressione di trovare in un terreno arido, pozzi di una profondità eccezionale. Il punto in cui il lavoro di categorizzazione si ferma non è per loro che il punto di partenza. Hanno scavato ben al di là. Hanno raggiunto le vene d’acqua, la sorgente della vita. Tuttavia, questi pozzi non comunicano tra loro, anche se è la stessa acqua che vi si trova. Il compito che incombe su di me è quello di stendere una carta geografica, di trovare un linguaggio comune.» Questo linguaggio, Itsuo Tsuda lo troverà nell’arte della scrittura (definiva se stesso scrittore-filosofo, come testimonia la sua lapide al cimitero di Père Lachaise), nell’insegnamento di una certa forma dell’Aikido basata sulla respirazione e l’approfondimento della sensazione del Ki, infine facendo conoscere il Katsugen undo (Movimento rigeneratore). Attraverso il suo lavoro, i suoi scritti, il suo insegnamento, riuscirà a creare un ponte tra l’Oriente e l’Occidente. Ciò che minaccia il praticante di arti marziali e in particolare di Aikido è la noia dovuta alla ripetizione, alla ricerca dell’efficacia, al fatto di perfezionare la tecnica, e tutto questo a detrimento della profondità dell’arte, nonché della cultura che la sottende. Di fatto, la nostra epoca non è più soggetta agli stessi imperativi dei secoli scorsi, se è comunque utile essere in grado di reagire in caso di aggressione o di difficoltà, quello che sarà determinante è più la forza interiore e il risveglio dell’istinto, che la capacità di combattere. L’Aikido rimane una pratica del corpo, dove il rigore, la dinamica, il savoir-faire, hanno un’importanza capitale, ma il suo aspetto filosofico è tutt’altro che trascurabile. Questo aspetto non ha niente di contraddittorio, semmai il contrario, uno dei miei vecchi maestri Masamichi Noro l’aveva ben compreso quando, alla fine degli anni settanta, creò una nuova arte: il Ki no Michi (la via del Ki). La ricerca nell’Aikido è qualcosa di difficile e a volte può persino risultare deleteria, perché se non si tratta di affrontare altri combattenti, non si tratta neppure di meditazione o danza, e posso dire questo perché ho un immenso rispetto per queste arti, i cui pozzi sono diversi, ma la ricerca va sempre nella stessa direzione: andare a cercare sul versante dello sviluppo delle capacità umane, della cultura al di là del conosciuto, rimettersi in discussione e mettere in dubbio le idee del mondo, avanzare per far avanzare la nostra società per uscire forse un giorno dalla barbarie e dall’oscurantismo. Basta rileggere la conferenza di Umberto Eco3 su come l’essere umano si costruisca dei nemici per rendersi conto che abbiamo bisogno più che mai di conoscere l’altro per meglio comprenderlo. L’Aikido come Arte del Non-fare è una porta verso quello che molte persone cercano: la realizzazione di se stessi, senza un ego smisurato, ma nella semplicità, e con il piacere di un vissuto autentico.
1. Le Nouvel Observateur, settimanale francese fondato nel 1950, è il principale periodico generalista parigino in termini di diffusione. L’Express è un settimanale francese di attualità e politica fondato nel 1953 sul modello del periodico statunitense Time. 2. Itsuo Tsuda, Il Non-fare, Yume Editions – Parigi 2014 pp. 13, 14. 3. Umberto Eco, Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani Milano 2011.
Domenica 26 maggio a una festa di quartiere che si tiene nel parco di via Livigno, zona nord di Milano, abbiamo organizzato una dimostrazione di Aikido con l’utilizzo del bokken, la spada di legno giapponese. Non ci interessava stupire il pubblico con pose marziali o tecniche spettacolari. Preferivamo mostrare quello che facciamo tutti i giorni nelle sedute di pratica regolare al dojo. Ma è pur vero che ricreare le condizioni di un dojo, il luogo in cui pratichiamo l’Aikido, in un luogo pubblico, all’aperto, in una festa di quartiere, non è facile.
Un dojo “è un po’ come uno scrigno…”. “Certo, è possibile praticare ovunque, adattarsi a tutte le circostanze. Ma è sempre auspicabile?” Facendo un parallelo con la musica, “si può suonare all’aperto, in una palestra, in una scuola, una chiesa, un ospedale, ecc. […] Ma una buona sala da concerto è un’altra cosa. È uno scrigno, dove il musicista, invece di passare il tempo ad adattarsi alla situazione, a compensare la cattiva acustica o altro, può immergersi nell’ascolto, cercare la finezza e far sorgere la musica.” [1]
Il Maestro Tsuda parlava di “un luogo dove lo spazio-tempo è diverso” [2], ed è “per questo che nella Scuola Itsuo Tsuda diamo tanta importanza alla creazione dei Dojo.”[3]
Domenica al parco abbiamo provato a ricreare le condizioni che troviamo al dojo, dove pratichiamo sempre davanti a una calligrafia, che per il Maestro Tsuda rappresentava un altro modo di trasmettere il suo insegnamento.
Abbiamo preparato lo spazio e montato su un cavalletto la calligrafia “Cento fiori”, a proposito della quale il Maestro Tsuda dando un’indicazione a mo’ di titolo disse “a ognuno il suo sbocciare”, ed anche “Cento fiori per indicare la diversità degli uomini”. [4]
Poi, come spiegato all’inizio della dimostrazione e come facciamo in ogni seduta, abbiamo iniziato con la Pratica respiratoria, come il Maestro Itsuo Tsuda chiamava la pratica individuale che precede quella in coppia. Per lui, come per O Sensei Ueshiba, questa parte iniziale è l’occasione di ritrovarsi un po’ alla volta, giorno dopo giorno di armonizzarsi con ciò che ci sta intorno e con noi stessi, in quanto apparteniamo alla Natura, siamo tutt’uno con essa.
Con questo stesso spirito, alla prima parte sono seguite alcune tecniche a coppie con il bokken e una dimostrazione di estrazione di spada giapponese.
L’importanza della pratica, della pratica regolare, non si può veramente spiegare a parole. Come scrive Régis Soavi Sensei, “lo spirito dell’Aikido si trova nella pratica stessa e poco a poco lo si scopre. Ed è un reale godimento questa scoperta. Le persone che iniziano, quando prendono coscienza della sua importanza, entrano pienamente in quest’arte che è la nostra.” [5]
Per noi era interessante praticare all’aperto e incontrare altre persone per far scoprire loro il nostro Aikido, ma la pratica regolare al dojo è un piacere incomparabile che tutti possono provare!
Note
[1] Manon Soavi, Dojo, un autre espace-temps, Dragon Magazine Special Aikido n. 18, 2017, p. 60-63, di prossima traduzione in italiano sul blog della Scuola Itsuo Tsuda.
[2] Itsuo Tsuda. Cœur de Ciel Pur, Éditions Le Courrier du Livre, 2014, p. 113.
[3] Manon Soavi, Dojo, un autre espace-temps, Dragon Magazine Special Aikido n. 18, 2017, p. 60-63.
[4] Itsuo Tsuda. Calligrafie di primavera, Yume editions, 2018, p. 330.
[5] Régis Soavi, L’esprit de l’Aïkido est dans la pratique, Dragon Magazine Special Aikido n. 18, 2017, p. 50-52, trad. it.
In questo articolo, a partire da un tema tratto da I-Ching (Khann = l’abissale), Régis Soavi Sensei ci parla dell’Aikido come una pratica di Misogi.
IlMisogi禊 è una pratica molto presente presso gli shintoisti. Consiste in un’abluzione, a volte sotto una cascata, in un corso d’acqua, o anche nel mare, e permette una purificazione allo stesso tempo fisica e psichica della persona. In un senso più ampio, Misogi include tutto un processo di risveglio spirituale. È anche un’azione che mira a dare sollievo all’essere da quello che l’opprime, per permettergli di risvegliarsi alla vita. L’acqua è sempre stata considerata come uno dei suoi elementi essenziali.
Come l’acqua, l’Aikido permette di realizzare il Misogi Ō sensei Morihei Ueshiba il fondatore dell’Aikido ripeteva in continuazione ai suoi allievi che la pratica di quest’arte era prima di tutto un Misogi. L’Aikido fa parte delle arti marziali giapponesi per le quali il carattere principale, la natura stessa, è proprio come per l’acqua, la fluidità. L’insegnamento di Itsuo Tsuda sensei, che fu per dieci anni uno degli allievi diretti del fondatore Morihei Ueshiba, non fa che confermarlo. Anche se le sue parole sembrano essere state in gran parte dimenticate si ostinava a ripetere: «Nell’Aikido non c’è combattimento, è l’arte di unirsi e separarsi». Tuttavia quando si guarda una seduta si vedono due persone che sembrano lottare l’una contro l’altra. La differenza viene dal fatto che se una di loro svolge il ruolo dell’attaccante, di fatto è un partner, non si troverà davanti alcuna aggressività, alcun gesto ostile, alcuna violenza, anche se dall’attacco deriva una risposta che può essere impressionante per la sua efficacia. In generale l’Aikido praticato nella Scuola Itsuo Tsuda si presenta come un’arte di una grande morbidezza in cui viene data la massima importanza alla sensazione, all’attenzione verso l’altro, verso colui o colei che è il partner, e la seduta inizia con una prima parte in scioltezza praticata individualmente. Lungi dal cominciare con un riscaldamento muscolare è attraverso degli esercizi, lenti, morbidi ma comunque tonici che si comincia. La coordinazione con la respirazione è indispensabile perché permette di armonizzare il ki e in tal modo di fare un primo passo verso la scoperta di un mondo che possiede una dimensione supplementare, il “Mondo del Ki”.
Il ki, una forza motrice. Ai, 合 l’unione, l’armonia Ki, 気 l’energia vitale, la vita Do, 道 la via, il cammino, tao Il ki non è un concetto, un’energia mistica, o una sorta di illusione mentale, il ki fa parte dell’ambito del sentire, delle sensazioni. In realtà tutti sanno di cosa si tratta anche se non gli si dà un nome nell’Occidente di oggi. Imparare a sentirlo, a riconoscerlo, a utilizzarlo, è necessario per chi vuole praticare un’arte marziale, ed è ancor più indispensabile nel caso della pratica dell’Aikido. Nell’Aikido se non ci si concentra sul ki, non resta che la forma, svuotata del suo contenuto, questa forma diventa subito un combattimento, una lotta dove il più forte, se non addirittura il più furbo, riesce a vincere l’altro. Si è così lontani dall’insegnamento del fondatore per il quale era un’arte della pace. Un’arte in cui non c’è né vincitore né vinto. Ad ogni movimento del partner c’è una complementarietà dell’altro, come l’acqua che si sposa con qualsiasi asperità, ogni angolo, senza lasciare nulla indietro.
Il Drago esce dallo stagno dove giaceva addormentato. Calligrafia di Itsuo Tsuda, realizzata con la tecnica rōketsuzome. [È possibile acquistare il libro “Itsuo Tsuda, Calligrafie di primavera” sul sito Yume editions]
Se all’inizio è difficile, è perché molto spesso abbiamo perso la mobilità, e soprattutto, perché ci siamo induriti per proteggerci dal mondo che ci circonda. Ci siamo costruiti un carapace, un’armatura, protettrice certo, ma che è diventata una seconda natura e una prigione invisibile. Fare circolare nuovamente il ki nel nostro corpo in modo da ritrovare la fluidità, seguire un insegnamento fondato sulla sensibilità, permette di comprendere fisicamente lo Yin e lo Yang.
Immergersi in un mare di ki Gli esercizi, così come tutte le tecniche proposte per la scoperta o per l’approfondimento sono non solo legate dal respiro, che altro non è che la materializzazione o per meglio dire, una visualizzazione del ki, ma permettono di riprendere concretamente coscienza del proprio corpo sia fisicamente sia a livello della sfera di ki, che gli indiani chiamano aura, e che oggi si è praticamente dimenticata quasi ovunque. Quello che le scienze moderne, e le neuroscienze in particolare, stanno scoprendo da alcuni anni non è che una piccola parte di quello che ciascuno può scoprire e realizzare materialmente nella propria vita quotidiana semplicemente attraverso la pratica dell’Aikido come lo insegnava Itsuo Tsuda sensei. Non smetteva di ripetere che l’Aikido di cui parlava il suo maestro Morihei Ueshiba era l’unione di Ka l’inspirazione, la forza ascendente, il quadrato, la trama e di Mi l’espirazione, la forza discendente, il cerchio, l’ordito. Ka è in giapponese una pronuncia di 火il fuoco (che compare per esempio come radicale in kasai 火災 incendio) e Mi la sillaba iniziale di Mizu水 l’acqua. L’insieme forma la parola Kami神che significa il divino nel senso della natura divina di ogni cosa. Itsuo Tsuda aggiungeva a questo proposito: «non bisogna vedere in questa glossa un valore analogo a quello di un’etimologia scientifica. È un gioco di parole, il cui uso è frequente tra i mistici»[1]. Non ho mai visto dei gesti così fluidi come quando ci faceva sentire una tecnica, ed inoltre non vi erano mai incidenti nel suo dojo, nessuna ferita, tutto era come immerso in un ki al tempo stesso rispettoso e generoso ma deciso e rigoroso, che faccio molta fatica a ritrovare oggi nelle palestre che servono all’allenamento degli aikidoka.
Il dojo, un luogo indispensabile Abbiamo veramente bisogno di un luogo speciale per praticare l’Aikido? Se si trattasse solo della superficie che accoglie le cadute potremmo benissimo posare i tatami ovunque, basta essere al riparo dal maltempo. Nel suo libro Cuore di cielo puro Itsuo Tsuda, intervistato da un giornalista, ci dà in modo estremamente chiaro una definizione di dojo, lui che era giapponese non poteva trovare parole più adatte per darcene un quadro.
Régis Soavi Sensei
«La Scuola della Respirazione è materialmente un “dojo”, questo spazio particolare in Oriente, che designa più lo spazio energetico che il luogo materiale in sé. […] Come ho già detto, il dojo non è semplicemente uno spazio a sé stante e riservato ad alcuni esercizi. È un luogo dove lo spazio-tempo è diverso da quello di un luogo profano. L’atmosfera è particolarmente intensa. Vi si entra salutando per sacralizzarsi e si esce salutando per desacralizzarsi. Gli spettatori sono ammessi, a condizione che rispettino questo ambiente, […]. Non bisogna fare superficialmente una parodia della pratica, con parole e gesti. Mi si dice che in Francia [o in Italia] si trovano dei dojo che sono semplicemente delle palestre o dei club sportivi. E sia. Ma quanto a me, voglio che il mio dojo sia un dojo, e non un club con un gestore e i suoi clienti, e questo allo scopo di non disturbare la sincerità dei praticanti. Il che non significa che essi debbano avere una faccia imbronciata e accigliata. Al contrario, bisogna mantenere uno spirito di pace, di comunione e di gioia»[2]. Uno spazio sacro dunque, eppure assolutamente non religioso, uno spazio laico, uno spazio di una grande semplicità dove la libertà di essere ciò che siamo, esiste, al di là della maschera sociale. E non quello che siamo diventati con tutti i compromessi che abbiamo dovuto accettare per poter sopravvivere nella società. Questa libertà sussiste all’interno, nel più profondo di noi stessi, nel nostro cuore intimo, il nostro Kokoro 心 come esprime così bene la lingua giapponese, e non sta chiedendo altro che rivelarsi.
[1] Itsuo Tsuda, La science du particulier, edizioni Le Courrier du Livre, Parigi 1976, p. 137.
[2]Itsuo Tsuda Cœur de ciel pur, edizioni Le Courrier du Livre, Parigi 2014, p. 14 e p. 113.
Il 29 settembre 2018 abbiamo inaugurato un nuovo locale, adiacente al nostro dojo, che ospita l’Atelier d’Expressione. Abbiamo così chiesto ad Andrea Quartino, praticante del nostro dojo, di raccontarci la sua esperienza rispetto all’Atelier, di seguito il suo articolo.
Ingresso principale del nuovo Atelier d’Expressione in via Fioravanti 30, Milano.
Il 29 settembre 2018 abbiamo inaugurato in un locale accanto al nostro, nel cortile di via Fioravanti 30 a Milano, la nuova sede dell’Atelier Expressione. Cosa c’entra il dojo Scuola della Respirazione con un atelier di pittura? Perché l’abbiamo aperto? La scoperta dell’affinità tra Katsugen undo ed Espressione risale al 1985 quando Régis Soavi Sensei, che aveva iniziato a condurre degli stagea Milano da forse meno di un anno, è stato ospitato in un appartamento, o più precisamente in una stanza, in cui c’era stato un atelier d’Espressione [1]. Allora, Soavi Sensei non lo sapeva, la stanza era spoglia, ma ha percepito il ki (ambiente) che impregnava i muri su cui alcuni anni prima bambini e adulti avevano dipinto. Ne è stato talmente colpito che, dopo aver chiesto informazioni e essere tornato in Francia, ha voluto conoscere Arno Stern, lo scopritore dell’Espressione, ha letto i suoi libri ed articoli e per una decina d’anni ha avuto con lui uno scambio intenso.
Arno Stern, lo scopritore dell’Espressione.
Da allora Régis Soavi Sensei ha sempre promosso nelle città dove insegna da 35 anni (Tolosa, Parigi e Milano) la creazione di atelier d’espressione, in qualche modo legati ai dojo. Il primo di questi atelier è nato a Tolosa[2]. È stato qui che, nel luglio 1993, in occasione dello stage d’estate, ho incontrato l’Espressione. È stata solo una seduta, ma è stato un colpo di fulmine, una rivelazione incredibile, per cui, ogni anno, quando andavo allo stage d’estate cercavo di partecipare ad almeno una seduta dell’atelier. Per me, che praticavo il Katsugen undo da pochi anni, la pratica dell’Espressione era qualcosa di semplice e piacevole, estremamente piacevole, poter dipingere e tracciare liberamente, senza condizionamenti, senza giudizi e sguardi altrui, era la possibilità di svuotarmi la testa ed esprimermi in piena libertà, con un vero divertimento interiore.
Per poter praticare l’Espressione in modo regolare ho dovuto aspettare alcuni anni, quando una coppia di praticanti della Scuola della Respirazione ha aperto a casa loro un atelier. Li ho aiutati, come altri membri del nostro dojo, ad allestire questo spazio ed appena sono iniziate le sedute vi ho praticato fino alla chiusura, in seguito al trasferimento di questa coppia.
Così, per alcuni anni, a Milano non c’era più un atelier legato al dojo. Mi sono chiesto se andare a praticare in un altro atelier, ma di fatto ho continuato a praticare l’Espressione solo quando andavo a uno stage di Régis Soavi Sensei a Parigi, dove nel frattempo era nato un altro atelier di pittura.
Nel 2008, Cristina B., che aveva condotto negli ultimi mesi le sedute nell’atelier di Milano prima della chiusura, ha aperto l’Atelier Expressione che nel corso degli anni ha cambiato due volte sede. In entrambi questi spazi, oltre praticare regolarmente, ho partecipato attivamente ai lavori per adattare i locali alla pratica dell’Espressione.
Alla fine dell’anno scorso, il proprietario del nostro dojo ci ha informato che lo spazio accanto al nostro nella primavera 2018 si sarebbe liberato. Finalmente! Sono 20 anni che teniamo d’occhio questo locale a pianta più o meno quadrata di circa 30mq dicendoci: “Ah, sarebbe l’ideale per farci un atelier di pittura, chissà quando si libererà”. Senza ripercorrere anche la storia degli ultimi mesi, il 5 agosto, si arriva alla firma del contratto d’affitto. I lavori per l’allestimento iniziano, con la partecipazione di molti membri del nostro dojo, fino all’apertura ufficiale con la festa d’inaugurazione di fine settembre in cui abbiamo proiettato un video e brindato a questo nuovo inizio.
Inaugurazione nuovo locale dell’Atelier d’Expressione
Siamo contenti di aver accolto oltre una trentina di persone, tra grandi e piccoli, genitori e figli, che sono venute a vedere questo spazio che fino a pochi mesi prima era un deposito di materiali edili e che abbiamo trasformato in un luogo di pratica. Hanno avuto la possibilità, insieme alla gran parte degli iscritti del dojo, di vedere le pareti coperte di tracce colorate, di ascoltare le parole di Stern guardando il video e di informarsi sullo svolgimento delle sedute che sono appena iniziate ad ottobre.
Spero di aver dato un’idea sufficientemente esaustiva del perché e del come il dojo Scuola della Respirazione sostiene l’Atelier Expressione. Certo lo slancio che viene dall’insegnamento e dall’azione di Régis Soavi Sensei è stato ed è decisivo.
Infine, un aspetto fondamentale che evidenzia l’affinità tra Katsugen undo ed Espressione: entrambe le pratiche favoriscono la normalizzazione del terreno dell’individuo permettendogli di ritrovare capacità universali che all’origine appartengono ad ogni essere umano e che in ognuno restano per tutta la vita, per quanto vengano dimenticate e nascoste perché represse dai condizionamenti della scuola, dell’educazione e della società. Nel caso dell’atelier, questa capacità, che è allo stesso tempo un bisogno, è quella di esprimere le Tracce che fin dalla nascita, o anche prima, sono presenti nella memoria organica di chiunque, indipendentemente dalla latitudine e dalla cultura in cui è nato. In proposito, Régis Soavi Sensei dice:
“Perché si manifesta questo bisogno di tracciare? Esso si manifesta perché, a livello delle nostre origini, del nostro organismo, noi abbiamo una memoria. Arno Stern la definisce “memoria organica”, una specie di registrazione. Abbiamo il bisogno di tracciare ed esistono momenti di svolta in cui le tracce, all’improvviso, emergono: per riequilibrarci, abbiamo bisogno di lasciar fluire queste registrazioni. Ecco il vero fondo dell’Espressione: lasciar fluire queste registrazioni.”[3]
In quale modo avviene ciò? È difficile dire qualcosa di più a parole… se volete scoprirlo concretamente, consigliamo di venire a farlo di persona alle sedute dell’Atelier Expressione di via Fioravanti 30, per vedere le potenzialità che caratterizzano questa nuova avventura!
Venerdì 25 maggio è stato pubblicato sull’inserto nazionale del Corriere della Sera Liberi Tutti (pag. 20) l’articolo di Luisa Ponzato: “La via della calligrafia passa (anche) per il Giappone”.
È stato tradotto in italiano l’articolo di Régis Soavi pubblicato su Dragon Magazine (speciale Aikido n° 18) nel mese di ottobre del 2017.
La pratica dell’Aikido ci conduce verso la riunificazione dell’essere umano. Régis Soavi ci dà degli indizi preziosi su quest’arte dalla trasmissione sottile.
«Si ha spesso tendenza a considerare lo spirito di un’arte come un processo mentale, una direzione da prendere in modo cosciente o anche come delle regole da rispettare. Tutto questo perché in occidente viviamo in un mondo di separazione, di divisione. Da una parte c’è lo spirito, dall’altra il corpo, da una parte il conscio, dall’altra l’inconscio, è questo che dovrebbe fare di noi degli esseri civilizzati mentre invece questa separazione genera in noi dei conflitti. Conflitti che sono rinforzati dai sistemi di divieti istituiti per proteggere la società, per proteggere noi stessi contro noi stessi. Verso la riunificazione dell’essere umano, ecco la Via nella quale ci dirigiamo con la pratica dell’Aikido.» […]
E’ in edicola un articolo sul nostro dojo “Alla ricerca del momento giusto” di Yan Allegret, sull’ultimo numero della rivista “New Martial Hero Magazine”.